Non "Quanto ci costano" le manifestazioni per Gaza ma "quanto ci costa" San Francesco?
📰 Ombre e ingranaggi del potere
Ieri ho guardato la puntata dedicata a Gaza di Presa Diretta, nonostante avessi preferito più volte cambiare canale di fronte al mare di orrore. L’ho fatto per onorare il compito che mi sono dato e che mi sembra l’unica forma di condivisione possibile, per me, non avendo purtroppo le competenze per unirmi a chi fa assistenza e partire (i giornalisti, si sa, a Gaza non possono entrare). Posso però non distogliere lo sguardo.
Non smettere di guardare, informarmi, quotidianamente, su quei luoghi e quei volti perché chi è guardato esiste, chi è visto ha speranza. Faccio quello che posso come posso con le migliori intenzioni e lo faccio per il bene degli altri che è anche il mio. È qualcosa che abbiamo messo all’angolo, si è coniato il dispregiativo: buonisti. Meglio essere “cattivisti”, funziona. Il politicamente scorretto, il disprezzo delle fragilità e di chi sta ai margini, la derisione di chi chiede giustizia. Bisogna vergognarsi di essere “anime belle”. Invece no, a me fa stare male non esserlo, mi spiace.
A proposito di questo Giorgia Meloni nell’ultimo Consiglio dei ministri, ha chiesto ai dicasteri competenti un calcolo complessivo di quanto è costata agli italiani la mobilitazione “Blocchiamo Tutto”. «Poi lo spiegherò agli italiani».
Molti mi hanno scritto: “Perché non le chiediamo conto dei centri in Albania?”. E altri “perché?” molto giusto. Poi ho letto un articolo di Roberto Grendene, presidente dell’UAAR. Dice che il 4 ottobre, giorno di san Francesco, era già una solennità civile. Era, appunto. Una festa istituita per onorare Caterina da Siena e Francesco d’Assisi, proclamati patroni d’Italia da papa Pacelli, in pieno Ventennio. Ma a questa legislatura, la diciannovesima, non bastava.
Così, con un voto quasi unanime — maggioranza in prima fila, opposizione che applaude — la festa religiosa è tornata. 48 anni dopo la sua abolizione.
Un ritorno che profuma di incenso e di nostalgia. E che costa, naturalmente.
Perché le feste, anche quando si chiamano “del poverello d’Assisi”, povere non sono mai.
I conti li fa Grendene: dieci milioni di euro già stanziati solo per coprire le retribuzioni aggiuntive del personale della sanità e del comparto sicurezza. Spiccioli, dice lui. Il problema vero è un altro: un giorno di lavoro in meno per tutto il Paese.
Il valore del Pil diviso per 365 fa sei miliardi al giorno. Non tutto si ferma, certo — bar, ospedali, turni, fabbriche aperte a metà — ma, con prudenza, si può stimare una perdita di circa due miliardi di euro di ricchezza prodotta ogni anno. Due miliardi per una festa che era stata cancellata proprio per questo motivo: perché apriva un buco nel bilancio dello Stato.
E non è finita. Perché se oggi la ricorrenza di san Francesco torna in calendario, domani c’è già chi sogna di resuscitare anche quella di san Giuseppe. La stessa maggioranza, però, ha dovuto frenare: costerebbe troppo, “un sacco di soldi”, come ammettono perfino loro.
Intanto, in Abruzzo, la Regione ha appena approvato un finanziamento di centomila euro alla Conferenza episcopale abruzzese-molisana per l’olio della lampada votiva sulla tomba del santo. Simbolico, dicono. Ma intanto si paga. E non sarà l’unico rivolo.
Con i costi del Giubileo — quello in corso e quello già in programma per il 2033 — il fardello per i contribuenti supererà, prevedibilmente, i sette miliardi di euro. Sette miliardi.
E tutto questo per un giorno che, nella retorica dei promotori, “riporta la fede al centro”. Maurizio Lupi, in Aula, parla di “coesione e pace fondate su fede e spiritualità”. Al Senato, Alberto Balboni proclama che “ogni 4 ottobre l’Italia ricorderà i suoi santi e la sua storia”.
Ecco. È questo il punto. La storia.
Perché la storia di un Paese moderno dovrebbe raccontare conquiste civili, non miracoli. Libertà, diritti, lavoro, non reliquie. Le nostre feste nazionali dovrebbero parlare a tutti — credenti, non credenti, dubbiosi — e rappresentare valori universali. Come il 25 aprile, come il Primo maggio.
Ce ne sarebbero altre, se solo si volesse guardare avanti. Il 20 settembre, ad esempio, la Breccia di Porta Pia: la fine del potere temporale della Chiesa, l’inizio di un’Italia laica e unita. O il 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani: una data che appartiene al mondo intero.
Ma il Parlamento del 2025 ha scelto diversamente. Ha scelto il passato. Un passo indietro, nel nome di un santo, con la benedizione di tutti. Ecco quanto ci costa. E il conto — come sempre — lo paga chi lavora.


