Perché la Gen Z sta con Gaza?
📰 Ombre e ingranaggi del potere
C’è una piazza nuova, affollata e rumorosa, che non prima di affollare le strade, si organizza sullo schermo dei telefoni. È lì che la Generazione Z – ragazzi e ragazze nati tra la fine degli anni ’90 e i primi 2010 – forma la propria opinione sul mondo, spesso in dissonanza con quella dei genitori. Ed è lì che si spiega perché, in larga parte, questi giovani sostengano la Palestina.
Non è un dettaglio. È una frattura generazionale.
I numeri
Un sondaggio condotto da YouGov nel 2024 in cinque paesi europei – Italia, Francia, Germania, Belgio e Svezia – mostra che i più giovani sono molto più consapevoli delle violazioni dei diritti umani compiute da Israele rispetto alle generazioni più anziane. In Italia, ad esempio, tra i 18 e i 24 anni oltre la metà ritiene credibili le accuse di genocidio mosse alla Corte internazionale di giustizia; tra gli over 55, la percentuale cala drasticamente.
Negli Stati Uniti, patria dell’alleanza storica con Israele, un sondaggio di Data for Progress segnalava già nel 2023 che quasi due terzi degli under 30 consideravano Israele uno “Stato di apartheid”. Una definizione che fino a pochi anni fa era relegata alle ONG e a qualche voce critica.
I dati raccontano, insomma, che la linea di faglia corre lungo l’età.
Le ragioni
Perché? La risposta, come sempre, è culturale prima ancora che politica.
La Gen Z è cresciuta dentro la globalizzazione digitale. Non ha dovuto leggere nei libri o aspettare i reportage dei giornali: ha visto in diretta, su TikTok o Instagram, i video dei bombardamenti su Gaza, i corpi dei bambini, le case distrutte. Ha ascoltato voci palestinesi senza il filtro dei corrispondenti occidentali. Questa esposizione diretta produce empatia, e l’empatia si traduce in opinione politica.
Poi c’è il tema dei valori generazionali. La Gen Z è cresciuta nella stagione dei Fridays for Future, della lotta contro il razzismo sistemico, del femminismo intersezionale. È una generazione che riconosce le asimmetrie di potere, che pensa in termini di oppressi e oppressori. Per loro, la Palestina non è solo un conflitto lontano: è la metafora di tutte le ingiustizie.
Un’analisi pubblicata su Al Jazeera nel 2021 lo spiegava chiaramente: per la Gen Z, sostenere la Palestina è parte dello stesso orizzonte etico che porta a sostenere le minoranze, i migranti, i diritti LGBTQ+. Non una battaglia isolata, ma il tassello di un’unica narrazione di giustizia.
L’Europa e l’Italia
In Europa questa percezione è fortissima. Sempre YouGov segnala che il sostegno a Israele ha toccato minimi storici in paesi come Germania, Francia e Italia. Tra i giovani italiani, la simpatia verso la causa palestinese non si traduce necessariamente in un’identificazione politica, ma in un sentimento diffuso: che non si possa più accettare la sproporzione delle violenze.
È un cambio culturale radicale. In Italia, chi ricorda gli anni ’70 e ’80 rammenta un paese diviso su Palestina e Israele, in cui la solidarietà ai palestinesi era patrimonio di certe aree della sinistra. Oggi non è più così: la causa palestinese diventa trasversale, emotiva, immediata. Non più patrimonio di partito, ma linguaggio generazionale.
La frattura con il potere
Ed è qui che nasce lo scontro. Perché mentre i governi europei continuano a difendere Israele come alleato imprescindibile, i loro giovani cittadini non si riconoscono più in questa narrazione. È un divario che mina la credibilità delle istituzioni: da un lato dichiarazioni ufficiali, dall’altro piazze digitali e reali che gridano “Palestina libera”.
Una questione di sguardi. Lo sguardo della Gen Z non è più rivolto alle cancellerie, ma agli smartphone che mostrano il dolore dei civili. Non è questione di ideologia, ma di percezione immediata della sofferenza.
Una generazione politica, senza partiti
Così, paradossalmente, la generazione che tutti dicevano apatica, chiusa nei social, scopre di essere politica più di chiunque altro. Non nei partiti – che non li rappresentano – ma nella capacità di leggere il mondo, di schierarsi, di agire: condivisioni, boicottaggi, proteste.
Il sostegno della Gen Z alla Palestina non è solo un fatto contingente: è un segnale. La promessa che la politica di domani sarà diversa. Perché i ragazzi e le ragazze di oggi non dimenticheranno le immagini viste a vent’anni. Le immagini sono destino, scriveranno il futuro dei prossimi anni.






Ricordo la guerra dei 6 giorni, se dicevi che era sbagliata allora eri un antisemita, noi ci portavamo il retaggio dei campi di sterminio e allora qualsiasi cosa facesse Israele era difficile contestarlo. Come se nei campi non ci fossero stati, comunisti, zingari, omosessuali e minoranze etniche. Oggi per fortuna i giovani non hanno da espiare le colpe dei loro nonni e genitori. Almeno così mi sembra.
Vedo però un limite: la rete è e sarà sempre più il luogo delle "post-verità" (leggi: menzogne, propsgsnda). Ricordiamoci che allo stesso modo un fino a ieri sconosciuto Charlie Kirk ha irretito migliaia di giovani della stessa Gen Z e ha raccolto milioni di dollari per una organizzazione che seminando odio e discriminazione. Ottimo quel che è successo, ma non è tutto oro ciò che luccica, purtroppo.